Il diritto all’oblio è un diritto di creazione giurisprudenziale ed è volto ad impedire la rievocazione a distanza di tempo di fatti che sono già stati resi di dominio pubblico, quando viene meno l’attualità della notizia. Quindi si può dire che il diritto all’oblio è il c.d. “diritto ad essere dimenticati”.
Un tempo, prima della nascita della tecnologia digitale e dei social network, era facile dimenticare una notizia, mentre attualmente è possibile rintracciare articoli on-line risalenti negli anni, con conseguente rischio di impedire una piena riabilitazione dell’interessato.
Quest’ultimo, in base all’articolo 7 del Codice della Privacy ha diritto alla cancellazione, alla trasformazione, al blocco, alla rettificazione, all’aggiornamento e all’integrazione dei propri dati personali. A tal fine, il tempo trascorso riveste una funzione determinante, poiché una volta venuto meno l’interesse sociale della conoscenza del fatto, è possibile esercitare un’azione inibitoria innanzi all’autorità giudiziaria.
Nello specifico, occorre bilanciare da un lato il diritto di cronaca e di informazione (tutelato dalla Costituzione Italiana, art. 21), con il diritto alla riservatezza altrui.
La giurisprudenza in materia ha riconosciuto l’importanza del “diritto a essere dimenticati” in diverse pronunce, soprattutto in ambito europeo. Si segnala al riguardo la nota sentenza della Corte di Giustizia dell’Unione Europea n. 317/2014, che, elevando il diritto all’oblio al rango di diritto inviolabile, ha altresì individuato quali parametri ai fini della rimozione della notizia, il tempo trascorso e il ruolo ricoperto dall’interessato nella vita pubblica.
Con la recente introduzione del Regolamento generale per la protezione dei dati n. 679 del 2016 (cd. GPDR acronimo di “General Data Protection Regulation”), il diritto all’oblio trova finalmente una forma di regolamentazione, posto che l’art. 17 sancisce il “diritto alla cancellazione” dei dati personali nei seguenti casi:
a) i dati personali non sono più necessari rispetto alle finalità per le quali sono stati raccolti o altrimenti trattati;
b) l’interessato revoca il consenso su cui si basa il trattamento o se non sussiste altro fondamento giuridico per il trattamento;
c) l’interessato si oppone al trattamento ai sensi dell’articolo 21, paragrafo 1, gdpr e non sussiste alcun motivo legittimo prevalente per procedere al trattamento, oppure si oppone al trattamento ai sensi dell’articolo 21, paragrafo 2, gdpr;
d) i dati personali sono stati trattati illecitamente;
e) i dati personali devono essere cancellati per adempiere un obbligo legale previsto dal diritto dell’Unione o dello Stato membro cui è soggetto il titolare del trattamento;
f) i dati personali sono stati raccolti relativamente all’offerta di servizi della società dell’informazione .
La normativa italiana stabilisce che la diffusione dei dati, il loro trattamento e la loro permanenza nei sistemi di conservazione dei dati può considerarsi lecita in quanto sia dettata da esigenze pubbliche e sia conforme alla normativa di tutela della privacy e delle libertà ad esse connesse, che trovano espresso riconoscimento anche nella Carta dei diritti fondamentali dell’UE (artt.7-8).
Gli articoli 136 e 137 del D.lgs n. 196 del 2006, il c.d. Codice della Privacy (modificato dal D.lgs 10 agosto 2018 n. 101 che ha adeguato la normativa nazionale al Regolamento UE per la protezione dei dati, che è divenuto operativo il 25 maggio 2018), prevedono che il trattamento dei dati personali, relativi a circostanze o fatti resi noti direttamente dagli interessati o attraverso loro comportamenti in pubblico, possa essere effettuato nell’esercizio della professione di giornalista e per l’esclusivo perseguimento delle relative finalità, o nell’ambito di altre manifestazioni di pensiero, per esempio artistiche.
Per quanto riguarda il bilanciamento che bisogna realizzare tra il diritto di cronaca e il diritto all’oblio appare interessante richiamare un caso affrontato dalla Suprema Corte di Cassazione nel 2017.
Il caso trae origine da una vicenda processuale che vedeva coinvolto Vittorio Emanuele di Savoia il quale aveva querelato un giornalista e il direttore responsabile di un noto quotidiano per la pubblicazione di un articolo, all’interno del quale il figlio dell’ultimo Re d’Italia veniva indicato come “quello che usò con disinvoltura il fucile all’isola di Cavallo, uccidendo un uomo”, riferendosi in tal modo ad un fatto di cronaca che risaliva al 1978, (in tale occasione il principe fu coinvolto in una vicenda che aveva provocato la morte di un giovane tedesco).
Proprio in relazione a tale articolo, il principe di Savoia invocò l’applicazione del diritto all’oblio, procedendo a presentare una denuncia per diffamazione.
La Suprema Corte, chiamata a pronunciarsi sul caso, ha stabilito che “il “diritto all’oblio” sulle proprie vicende personali […] si deve confrontare col diritto della collettività ad essere informata e aggiornata sui fatti da cui dipende la formazione dei propri convincimenti, anche quando da essa derivi discredito alla persona che è titolare di quel diritto”( Cass. pen., sez. V, 22 giugno 2017, n. 38747).
Inoltre la Corte ha affermato che non si può escludere la rilevanza pubblica della notizia, dato che l’articolo fu scritto e pubblicato in occasione della cerimonia di riapertura della Reggia di Venaria, alla quale Vittorio Emanuele di Savoia aveva partecipato, “reduce, all’epoca, da altre disavventure giudiziarie, che l’avevano portato in carcere a Potenza (anche se, successivamente, sarebbe stato assolto). Si comprende, quindi, perché il giornale avesse ritenuto di interesse pubblico la riesumazione di una vicenda occorsa ventinove anni prima” (Cass. pen., sez. V, 22 giugno 2017, n. 38747).
Da ciò emerge che il giudice di merito ha il compito di valutare l’interesse pubblico, concreto ed attuale, alla menzione degli elementi identificativi delle persone che furono protagoniste dei fatti e delle vicende che si vogliono rievocare.
Tale menzione deve ritenersi lecita solo nelle ipotesi in cui si riferisca a personaggi che destino nel momento presente l’interesse della collettività, sia per ragioni di notorietà che per il ruolo pubblico rivestito; in caso contrario, prevale il diritto degli interessati alla riservatezza rispetto ad avvenimenti del passato di cui ormai si è persa la memoria collettiva.